Nell’ambito dell’organizzazione aziendale del lavoro, la pandemia da Covid-19 ha accelerato molti dei processi a cui, in epoca antecedente, numerosi operatori economici avevano prestato attenzione: tra questi, rientra sicuramente una diffusione molto più capillare del cosiddetto “lavoro agile” o “smart working”.
Se, negli anni precedenti, solo pochissime aziende ricorrevano a questo strumento, i lockdowns e le restrizioni succedutesi nell’ultimo biennio hanno “costretto” i datori di lavoro a riorganizzare le modalità lavorative dei propri dipendenti e collaboratori. In numerosi casi, tuttavia, si è confuso il lavoro agile con il telelavoro, una forma di prestazione d’opera già presente nell’ordinamento giuslavoristico italiano, la quale riproduceva pedissequamente gli schemi e le procedure tipiche dell’ufficio in un ambiente diverso, quale quello domestico.
Il lavoro agile si caratterizza, d’altro canto, per una maggiore flessibilità della prestazione, avendo come obiettivo principale il conseguimento del risultato e valutando pertanto la produttività del dipendente su tale elemento e non solo, ad esempio, sulle ore di presenza in ufficio.
Queste linee guida sono alla base del protocollo con cui, il 7 dicembre 2021, il Ministero del Lavoro e le organizzazioni sindacali datoriali e dei lavoratori hanno inteso disciplinare il lavoro agile nel settore privato.
Nel protocollo, viene individuata la contrattazione collettiva come strumento principale per la disciplina del lavoro agile, in quanto presidio di maggior garanzia per i lavoratori e per le stesse associazioni datoriali.
Tra i tanti, si ritiene di dover porre l’accento su due elementi portanti dell’intero sistema: il diritto alla disconnessione del lavoratore e la protezione dei dati personali.
Sotto il primo profilo, il datore di lavoro deve adottare specifiche misure tecniche e/o organizzative volte a garantire la fascia di disconnessione del lavoratore, per il quale il lavoro agile non deve diventare sinonimo di reperibilità H24: in tal senso, oltre alle summenzionate misure, il datore di lavoro dovrà occuparsi anche della formazione dei propri dipendenti, per rimanere al passo degli aggiornamenti tecnologici.
Sotto il profilo della tutela dei dati personali, il protocollo è piuttosto analitico nell’individuazione degli obblighi facenti capo alle singole parti del rapporto di lavoro: il datore dovrà dotare i dipendenti della strumentazione tecnologica necessaria allo svolgimento della propria prestazione da remoto, allestendo nel contempo una rete di sicurezza compliant con la normativa privacy e resistente agli attacchi informatici. Tali requisiti di sicurezza minimi dovranno essere rispettati qualora il lavoratore utilizzi propri strumenti informatici, nell’ambito di uno specifico accordo volto a disciplinare tale situazione.
Anche qualora lavorino da remoto, i dipendenti sono obbligati ad attivare la procedura di data breach prevista dall’azienda e saranno ritenuti responsabili in caso di comportamento negligente: in ogni caso, qualora non sia possibile riprendere l’attività lavorativa agile in tempi brevi, datore e dipendente dovranno concordare le modalità di completamento della prestazione lavorativa.
L’art. 12 rimanda specificatamente alla disciplina del Regolamento Europeo n. 679/2016 (“GDPR”) in tema di trattamento dei dati personali: la normativa in questione dovrà essere ovviamente rispettata anche in sede di lavoro agile e troveranno pertanto applicazione tutti gli adempimenti da essa prescritti. In sostanza, per il protocollo non fa differenza, a fini GDPR, la modalità organizzativa con cui il datore di lavoro ha inteso recepire le prestazioni dei propri dipendenti.
Di conseguenza, resta fermo l’obbligo di fornire al dipendente l’apposita informativa ex art. 13 GDPR, corredata di tutto quanto viene specificatamente richiesto dalla suddetta normativa.
Il protocollo in esame rappresenta, come si vede, un primo passo verso una nuova normalità, nella quale è espressamente contemplata una modalità di lavoro che tiene insieme le aspirazioni dei dipendenti ad una migliore work-life balance, la necessità di aumentare la produttività delle proprie aziende da parte dei datori di lavoro e un impatto positivo sulla vivibilità delle città e sugli indici di inquinamento ambientale. E’ auspicabile che il percorso intrapreso non si interrompa e che sia in grado di proseguire anche tenendo presente le esperienze internazionali più avanzate sul tema.